lunedì 15 ottobre 2012

immigrati usa e getta ,sionisti razzisti.

Rifugiati Sudan contro Tel Aviv

Trecento migranti contro gli arresti decisi da Israele. L'anti-immigrazione israeliana come salvaguardia dello Stato ebraico: meglio far lavorare i palestinesi che gli africani

adminSito
lunedì 15 ottobre 2012 09:57

 La protesta di ieri a Tel Aviv (Foto: Daniel Bar-On)
La protesta di ieri a Tel Aviv (Foto: Daniel Bar-On)
Dalla redazione

Roma, 15 ottobre 2012, Nena News - "Non siamo criminali, siamo rifugiati. No alla prigione". Questo lo slogan cantato ieri nelle strade di Tel Aviv da 300 migranti sudanesi, minacciati dalle autorità israeliane. Mercoledì scorso il Ministero dell'Interno ha annunciato l'arresto di 15mila sudanesi non considerati richiedenti asilo.

Se in Italia la legge considera reato criminale la clandestinità, in Israele il carcere si apre anche per chi chiede asilo politico. La prospettiva è una prigione nel deserto del Negev. Per questo i migranti sono scesi in piazza, chiedendo a Tel Aviv di esaminare le loro richieste individuali e decidere poi se riconoscerli come rifugiati o meno.

"Non siamo criminali, perché ci sbattete in prigione?", la domanda nei cartelli retti dai manifestanti, che si sono rivolti anche alle Nazioni Unite, accusate di non aver fatto nulla per aiutarli. "Vogliamo che Israele sappia che i sudanesi non sono venuti qui per lavorare. Siamo rifugiati - spiega Suaba Osma, da cinque anni in Israele dopo la fuga dal Darfur - Possiedo un documento emesso in Egitto che mi attesta come rifugiato. Lo porto con me così nessuno potrà dire che non lo sono".

"Sono arrivato in Israele cinque anni fa - racconta il 25enne Jacob Bari, membro dell'organizzazione Sons of Darfur - Il nostro status non è chiaro: siamo rifugiati o no? Secondo le convenzioni internazionali lo siamo perché siamo fuggiti ad una guerra. C'è la guerra in Darfur. Ma lo Stato non ci riconosce come tali. Il ministro dell'Interno ha detto che ci vuole deportare. Chiediamo: Dove ci deporterà? In mezzo ad una guerra? È contro il diritto internazionale".

Mercoledì Eli Yishai, ministro dell'Interno israeliano, ha annunciato che avrebbe fatto incarcerare 15mila richiedenti asilo provenienti dal Sudan, una decisione che giovedì la Corte Distrettuale di Gerusalemme ha bloccato, accettando la richiesta di alcune organizzazioni umanitarie di fermare temporaneamente gli arresti.

La richiesta di Yishai si fonda sulla convinzione che i sudanesi non siano rifugiati. A favore del governo israeliano sta l'indecisione dell'UNHCR, l'agenzia Onu per i rifugiati che sta ancora discutendo sullo status dei cittadini sudanesi.

La nuova politica anti-immigrazione di Tel Aviv nasce come forma di salvaguardia dello Stato ebraico. Durante la Seconda Intifada e con la costruzione del Muro di Separazione, i permessi di lavoro a favore di palestinesi della Cisgiordania si sono drasticamente ridotti. E sono state aperte le porte ai migranti africani, braccia da inserire nel mercato del lavoro israeliano.

Ma oggi la popolazione palestinese viene di nuovo percepita come una minaccia minore a quella che sarebbe rappresentata dai migranti africani: i palestinesi restano tali, con la loro carta d'identità verde della Cisgiordania tra le mani; gli africani fanno figli e chiedono la cittadinanza, mettendo in pericolo - secondo l'ideologia sionista - la natura dello Stato di Israele.

Oggi i permessi di lavoro vengono di nuovo concessi ai palestinesi e Tel Aviv tenta di sbarazzarsi dei migranti africani. Che secondo stime ufficiali raggiungerebbero quota 60mila, la maggior parte dei quali provenienti dal Sud Sudan e dall'Eritrea. Nena News


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