IL
30 NOVEMBRE A BRINDISI UNA BELLISSIMA INIZIATIVA,PRESENTIAMO UN LIBRO
DI FUMETTI CHE PARLA DI VITTORIO ARRIGONI,SARA' PRESENTE L'AUTORE DEL
LIBRO.
Un occasione per ricordare Vittorio che tanti amici si era fatto nella breve permanenza nella nostra citta', dove ha lasciato un ricordo indelebile tra tutti coloro che lo hanno conosciuto.
L'iniziativa si terra' allo Spazio Sociale Kamo PugliaPalestina a Brindisi via Porta Lecce 134 ore 20,30
“Guerrilla Radio”, un fumetto per restare umani
Pubblicato
15.10.2015, 17:53
È stato uno degli appuntamenti più interessanti di «Le strade del paesaggio», Festival del fumetto in programma fra il 9 e il 25 ottobre a Cosenza quello con il cartoonist capitolino Stefano Piccoli. Il suo ritorno sulla scena è il romanzo grafic Guerrilla Radio — Vittorio Arrigoni, la possibile utopia, romanzo grafico targato Round Robin Editore incentrato sulla figura dell’attivista e reporter indipendente ucciso a Gaza nel 2011. Lo sceneggiatore e disegnatore di Roma racconta la genesi di questo nuovo progetto all’insegna del “comic journalism” nato con la collaborazione della famiglia di Vik.
Pur essendo fra i più politicizzati fumettisti “indipendenti” italiani, nel corso del tempo ti sei spostato dalla satira tout-court de «Il Massacratore» alla docu-fiction del tuo nuovo lavoro su Vittorio Arrigoni. un’evoluzione naturale o una scelta?
Credo si tratti di un insieme di entrambi i fattori. Da una parte, la crescita quasi fisiologica di un autore e il cambiamento che tale crescita implica, riflettendo nell’opera di quell’autore ogni nuova contaminazione, esperienza, incontro o conoscenza della propria vita privata. Dall’altra, la scelta in quanto presa di coscienza, lucida comprensione dei propri obiettivi, anche in termini narrativi. Sapere cioè con chiarezza cosa si vuol raccontare. Sapere quando e come farlo!
Guardando la tua bibliografia, l’impressione è che tu ti sia decisamente distaccato dal mondo del fumetto per un bel pezzo. Mi piacerebbe approfondire un po’ il senso di questo lungo sabbatico.
Tra la fine della mia esperienza con il collettivo Factory nel 1998 e «Il ritorno del Massacratore» sono passati otto anni in cui non ho prodotto alcun fumetto. Sarebbe un arco di tempo impressionante, per chi fa fumetti di mestiere. Io però non ho mai fatto fumetti per mestiere e semplicemente ho fatto altro, come l’art director per brand di moda e abbigliamento o il giornalista musicale, altra grande passione di sempre trasformata in professione. In realtà, al di là dell’aspetto puramente economico, si è trattato di una serie di opportunità che si sono inanellate una dopo l’altra, dalla fondazione di «BIZ Hip Hop Magazine» insieme ad Ice One per Magic Press, alla direzione editoriale per le testate musicali del network Nexta Media, fino alle collaborazioni continuative con «Rumore», «Rockstar» o «Vanity Fair». Un vero e proprio “lavoro a tempo pieno” che mi ha tenuto lontano dalla nona arte, anche con la testa, fin quando la mia natura irrequieta non mi ha imposto di ricominciare a disegnare, come per un bisogno fisico di raccontare.
Stefano Piccoli in un ritratto recente
Stefano Piccoli in un ritratto recente
Nel tuo curriculum c’è anche una collaborazione con Emergency…
Sostengo spesso che in questo mondo tutti noi siamo come dei cavetti di input e output collegati alla Terra e che quindi per tanto che riceviamo (in benessere, affetti, gratificazioni e buona sorte), tanto dovremmo ridare indietro. Il mio personale retaggio politico, sociale e umano (in qualche modo anche contaminato da alcuni valori universali di matrice cristiana) mi ha sempre spinto verso il prossimo, come concetto assoluto. Non parliamo semplicemente della retorica sul povero, il malato, l’emarginato, l’oppresso o il prevaricato, ma proprio di diritti umani di base. In Emergency ho trovato questa piena espressione della cultura di pace e del diritto umano, della sua dignità, dove — per esempio — le cure mediche di qualità nelle zone di guerra devono essere un diritto che supera le fazioni coinvolte. Non essendo un medico o un infermiere che può realmente partire per le strutture in cui opera nel mondo, fare volontariato con Emergency dall’Italia significa impegnarsi nella divulgazione di questi principi (anche nelle scuole), nei banchetti informativi, nelle campagne di tesseramento, nelle raccolte fondi e — attraverso i gruppi territoriali — nell’ideazione, lo sviluppo e la promozione di iniziative, manifestazioni, spettacoli, collaborazioni e via dicendo. Proprio lo scorso maggio, per dire, nell’inventarmi un progetto con l’ARF Festival che legasse i fumetti alla solidarietà, ho coordinato un’iniziativa nazionale che ha coinvolto Gipi, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua e Sio in una “edizione limitata 2015″ di T-Shirt (tuttora in vendita nello shop on line di Emergency) che ha avuto grandissimo successo, concorrendo alla raccolta fondi per il Programma Italia della onlus.
Da autore “in presa diretta” che finora ha raccontato solo realtà viste da vicino, con “Guerrilla Radio” hai azzardato un salto in contesti umani, geografici e culturali molto distanti. Anche avendo a disposizione tutti i materiali realizzati da Arrigoni, è facile immaginare la difficoltà di “entrare nel personaggio”.
Il lavoro di documentazione prima di cominciare a scrivere e disegnare «Guerrilla Radio» è stato lunghissimo. Ho speso più di un anno solo per “entrare” nella vita di Vittorio, per capire quali fossero davvero le cose da raccontare (anche in episodi apparentemente minori) e quali invece fossero quelle superflue. Poi mi sono “allenato” a disegnare ambientazioni che restituissero verosimiglianza alla Palestina. Ma a rallentarmi, in realtà, non sono state né la documentazione, né tantomeno sceneggiatura o disegno, quanto il mio timore nella scelta di raccontare questa storia. Il timore del giudizio e della reazione che puoi avere nel momento in cui stai rivivendo una storia vera, non un’opera di finzione. E non parlo del giudizio del lettore generico, che può apprezzare o meno, ma di quello dei familiari di Vittorio, dei suoi amici, di tutti coloro che lo conoscevano e gli volevano bene, magari per aver condiviso il proprio percorso con lui.
Sempre per restare in argomento: impossibile parlare di Palestina a fumetti senza citare Joe Sacco o «Valzer con Bashir» di Folman; fanno parte del tuo bagaglio o hai preferito evitare influenze altrui?
Ne hanno fatto parte quasi per forza semplicemente perché — una volta lette o viste — certe opere ti rimangono dentro per sempre! Non puoi far finta di averle dimenticate dal momento stesso in cui ti rendi conto che stai utilizzando lo stesso strumento, lo stesso linguaggio. Poi, ovviamente, ogni autore ha una propria storia con i propri specifici riferimenti politici o culturali. E una propria cifra stilistica. Senza considerare che gli autori che hai citato sono dei Maestri del cosiddetto “graphic journalism”, quindi mi imbarazzerebbe fare paragoni con tutti loro.
Come mai la scelta di una “raccolta di racconti”? È solo figlia della volontà di accostare i contributi degli altri autori che hanno partecipato all’avventura agli otto episodi del libro?
La suddivisione in otto capitoli l’ho fatta esclusivamente come scelta narrativa. Non volevo realizzare la biografia ufficiale di Vittorio Arrigoni, che forse in futuro farà qualcun altro. Mi sono focalizzato su otto determinati momenti del suo percorso (non solo a Gaza) che potessero raccontarlo sotto diversi punti di vista, sia per il suo operato che per il suo carattere. Come fossero pezzi di puzzle più grande, che casomai toccherà alla bontà del lettore ricostruire. I contributi esterni sono raccolti dopo la storia a fumetti, nella seconda parte del volume. Non la inframezzano, ma approfondiscono le sfaccettature di Vittorio, raccontando le proprie esperienze di reporter e cooperanti.
Mi pare di capire che la famiglia di Vittorio Arrigoni ti abbia supportato molto nella realizzazione del volume. Raccontaci com’è andata.
Molto semplicemente, prima ancora di cominciare a disegnare ho contattato sua mamma Egidia Beretta (che su suo figlio ha già scritto «Il viaggio di Vittorio» — Baldini & Castoldi, 2013) e sua sorella Alessandra, perché senza il loro placet non ci avrei neanche provato, mi sarebbe sembrato una sorta di libro apocrifo. Entrambe non conoscevano per niente il mondo del fumetto, le relative dinamiche editoriali, i suoi tempi produttivi. Ma una volta entrate dentro al meccanismo, mi hanno appoggiato al 100%! Con Alessandra mi ci sono incontrato di persona, illustrandole per bene tutto il progetto. Con la signora Egidia ho invece instaurato un fitto rapporto epistolare (e telefonico) attraverso il quale ha potuto supervisionare l’intero libro tavola per tavola, ogni capitolo, ogni dialogo. Intervenendo su alcune correzioni dei testi, se necessario. E mi ha scritto l’introduzione.
"Guerrilla Radio": la copertina - © Round Robin 2015
“Guerrilla Radio”: la copertina — © Round Robin 2015
Un occasione per ricordare Vittorio che tanti amici si era fatto nella breve permanenza nella nostra citta', dove ha lasciato un ricordo indelebile tra tutti coloro che lo hanno conosciuto.
L'iniziativa si terra' allo Spazio Sociale Kamo PugliaPalestina a Brindisi via Porta Lecce 134 ore 20,30
“Guerrilla Radio”, un fumetto per restare umani
Pubblicato
15.10.2015, 17:53
È stato uno degli appuntamenti più interessanti di «Le strade del paesaggio», Festival del fumetto in programma fra il 9 e il 25 ottobre a Cosenza quello con il cartoonist capitolino Stefano Piccoli. Il suo ritorno sulla scena è il romanzo grafic Guerrilla Radio — Vittorio Arrigoni, la possibile utopia, romanzo grafico targato Round Robin Editore incentrato sulla figura dell’attivista e reporter indipendente ucciso a Gaza nel 2011. Lo sceneggiatore e disegnatore di Roma racconta la genesi di questo nuovo progetto all’insegna del “comic journalism” nato con la collaborazione della famiglia di Vik.
Pur essendo fra i più politicizzati fumettisti “indipendenti” italiani, nel corso del tempo ti sei spostato dalla satira tout-court de «Il Massacratore» alla docu-fiction del tuo nuovo lavoro su Vittorio Arrigoni. un’evoluzione naturale o una scelta?
Credo si tratti di un insieme di entrambi i fattori. Da una parte, la crescita quasi fisiologica di un autore e il cambiamento che tale crescita implica, riflettendo nell’opera di quell’autore ogni nuova contaminazione, esperienza, incontro o conoscenza della propria vita privata. Dall’altra, la scelta in quanto presa di coscienza, lucida comprensione dei propri obiettivi, anche in termini narrativi. Sapere cioè con chiarezza cosa si vuol raccontare. Sapere quando e come farlo!
Guardando la tua bibliografia, l’impressione è che tu ti sia decisamente distaccato dal mondo del fumetto per un bel pezzo. Mi piacerebbe approfondire un po’ il senso di questo lungo sabbatico.
Tra la fine della mia esperienza con il collettivo Factory nel 1998 e «Il ritorno del Massacratore» sono passati otto anni in cui non ho prodotto alcun fumetto. Sarebbe un arco di tempo impressionante, per chi fa fumetti di mestiere. Io però non ho mai fatto fumetti per mestiere e semplicemente ho fatto altro, come l’art director per brand di moda e abbigliamento o il giornalista musicale, altra grande passione di sempre trasformata in professione. In realtà, al di là dell’aspetto puramente economico, si è trattato di una serie di opportunità che si sono inanellate una dopo l’altra, dalla fondazione di «BIZ Hip Hop Magazine» insieme ad Ice One per Magic Press, alla direzione editoriale per le testate musicali del network Nexta Media, fino alle collaborazioni continuative con «Rumore», «Rockstar» o «Vanity Fair». Un vero e proprio “lavoro a tempo pieno” che mi ha tenuto lontano dalla nona arte, anche con la testa, fin quando la mia natura irrequieta non mi ha imposto di ricominciare a disegnare, come per un bisogno fisico di raccontare.
Stefano Piccoli in un ritratto recente
Stefano Piccoli in un ritratto recente
Nel tuo curriculum c’è anche una collaborazione con Emergency…
Sostengo spesso che in questo mondo tutti noi siamo come dei cavetti di input e output collegati alla Terra e che quindi per tanto che riceviamo (in benessere, affetti, gratificazioni e buona sorte), tanto dovremmo ridare indietro. Il mio personale retaggio politico, sociale e umano (in qualche modo anche contaminato da alcuni valori universali di matrice cristiana) mi ha sempre spinto verso il prossimo, come concetto assoluto. Non parliamo semplicemente della retorica sul povero, il malato, l’emarginato, l’oppresso o il prevaricato, ma proprio di diritti umani di base. In Emergency ho trovato questa piena espressione della cultura di pace e del diritto umano, della sua dignità, dove — per esempio — le cure mediche di qualità nelle zone di guerra devono essere un diritto che supera le fazioni coinvolte. Non essendo un medico o un infermiere che può realmente partire per le strutture in cui opera nel mondo, fare volontariato con Emergency dall’Italia significa impegnarsi nella divulgazione di questi principi (anche nelle scuole), nei banchetti informativi, nelle campagne di tesseramento, nelle raccolte fondi e — attraverso i gruppi territoriali — nell’ideazione, lo sviluppo e la promozione di iniziative, manifestazioni, spettacoli, collaborazioni e via dicendo. Proprio lo scorso maggio, per dire, nell’inventarmi un progetto con l’ARF Festival che legasse i fumetti alla solidarietà, ho coordinato un’iniziativa nazionale che ha coinvolto Gipi, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua e Sio in una “edizione limitata 2015″ di T-Shirt (tuttora in vendita nello shop on line di Emergency) che ha avuto grandissimo successo, concorrendo alla raccolta fondi per il Programma Italia della onlus.
Da autore “in presa diretta” che finora ha raccontato solo realtà viste da vicino, con “Guerrilla Radio” hai azzardato un salto in contesti umani, geografici e culturali molto distanti. Anche avendo a disposizione tutti i materiali realizzati da Arrigoni, è facile immaginare la difficoltà di “entrare nel personaggio”.
Il lavoro di documentazione prima di cominciare a scrivere e disegnare «Guerrilla Radio» è stato lunghissimo. Ho speso più di un anno solo per “entrare” nella vita di Vittorio, per capire quali fossero davvero le cose da raccontare (anche in episodi apparentemente minori) e quali invece fossero quelle superflue. Poi mi sono “allenato” a disegnare ambientazioni che restituissero verosimiglianza alla Palestina. Ma a rallentarmi, in realtà, non sono state né la documentazione, né tantomeno sceneggiatura o disegno, quanto il mio timore nella scelta di raccontare questa storia. Il timore del giudizio e della reazione che puoi avere nel momento in cui stai rivivendo una storia vera, non un’opera di finzione. E non parlo del giudizio del lettore generico, che può apprezzare o meno, ma di quello dei familiari di Vittorio, dei suoi amici, di tutti coloro che lo conoscevano e gli volevano bene, magari per aver condiviso il proprio percorso con lui.
Sempre per restare in argomento: impossibile parlare di Palestina a fumetti senza citare Joe Sacco o «Valzer con Bashir» di Folman; fanno parte del tuo bagaglio o hai preferito evitare influenze altrui?
Ne hanno fatto parte quasi per forza semplicemente perché — una volta lette o viste — certe opere ti rimangono dentro per sempre! Non puoi far finta di averle dimenticate dal momento stesso in cui ti rendi conto che stai utilizzando lo stesso strumento, lo stesso linguaggio. Poi, ovviamente, ogni autore ha una propria storia con i propri specifici riferimenti politici o culturali. E una propria cifra stilistica. Senza considerare che gli autori che hai citato sono dei Maestri del cosiddetto “graphic journalism”, quindi mi imbarazzerebbe fare paragoni con tutti loro.
Come mai la scelta di una “raccolta di racconti”? È solo figlia della volontà di accostare i contributi degli altri autori che hanno partecipato all’avventura agli otto episodi del libro?
La suddivisione in otto capitoli l’ho fatta esclusivamente come scelta narrativa. Non volevo realizzare la biografia ufficiale di Vittorio Arrigoni, che forse in futuro farà qualcun altro. Mi sono focalizzato su otto determinati momenti del suo percorso (non solo a Gaza) che potessero raccontarlo sotto diversi punti di vista, sia per il suo operato che per il suo carattere. Come fossero pezzi di puzzle più grande, che casomai toccherà alla bontà del lettore ricostruire. I contributi esterni sono raccolti dopo la storia a fumetti, nella seconda parte del volume. Non la inframezzano, ma approfondiscono le sfaccettature di Vittorio, raccontando le proprie esperienze di reporter e cooperanti.
Mi pare di capire che la famiglia di Vittorio Arrigoni ti abbia supportato molto nella realizzazione del volume. Raccontaci com’è andata.
Molto semplicemente, prima ancora di cominciare a disegnare ho contattato sua mamma Egidia Beretta (che su suo figlio ha già scritto «Il viaggio di Vittorio» — Baldini & Castoldi, 2013) e sua sorella Alessandra, perché senza il loro placet non ci avrei neanche provato, mi sarebbe sembrato una sorta di libro apocrifo. Entrambe non conoscevano per niente il mondo del fumetto, le relative dinamiche editoriali, i suoi tempi produttivi. Ma una volta entrate dentro al meccanismo, mi hanno appoggiato al 100%! Con Alessandra mi ci sono incontrato di persona, illustrandole per bene tutto il progetto. Con la signora Egidia ho invece instaurato un fitto rapporto epistolare (e telefonico) attraverso il quale ha potuto supervisionare l’intero libro tavola per tavola, ogni capitolo, ogni dialogo. Intervenendo su alcune correzioni dei testi, se necessario. E mi ha scritto l’introduzione.
"Guerrilla Radio": la copertina - © Round Robin 2015
“Guerrilla Radio”: la copertina — © Round Robin 2015
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